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Quando gli occhi sinistri del drago si posarono su di lui, Eragon capì che la creatura non era una semplice apparizione, ma un essere senziente, legato alla magia e alimentato da essa. Il mormorio di Saphira e di Glaedr divenne sempre più forte, fino a colmare le orecchie di Eragon. In alto, il fantasma della loro razza calò in circolo sugli elfi, sfiorandoli con le sue ali impalpabili. Si fermò davanti a Eragon, abbracciandolo in uno sguardo sconfinato e vorticoso. Spinto da un irrefrenabile impulso, Eragon alzò la mano destra, con il palmo che gli formicolava.
Nella sua mente risuonò una voce di fuoco. Il nostro dono, affinchè tu compia ciò che devi.
Il drago piegò il collo e con il muso toccò il centro del gedwéy ignasia di Eragon. Una scintilla sprizzò fra di loro, ed Eragon s'irrigidì, mentre un calore incandescente gli pervadeva tutto il corpo, consumandolo. Lampi rossi e neri lo accecarono, e la cicatrice sulla schiena gli bruciò, come marchiata a fuoco. Cercò la salvezza sprofondando in se stesso, dove le tenebre lo avvolsero e lui non ebbe più la forza di resistere.
L'ultima cosa che udì fu la voce di fuoco che diceva: Il nostro dono per te.
In una radura stellata
Eragon si trovò solo al suo risveglio. Aprì gli occhi per fissare il soffitto intagliato della casa sull'albero che lui e Saphira condividevano. Fuori era ancora notte, e il clamore dei festeggiamenti elfici risaliva dalla città scintillante. Prima che notasse altro, Saphira gli entrò nella mente, irradiando apprensione e ansia. Gli arrivò un'immagine di lei al fianco di Islanzadi, sotto l'albero di Menoa; poi la dragonessa gli chiese: Come stai?
Mi sento... bene. Anzi, meglio di quanto non mi sia sentito da un po' di tempo a questa parte. Quanto ho... Soltanto un'ora. Sarei rimasta con te, ma avevano bisogno di Oromis, Glaedr e me per completare la cerimonia. Avresti dovuto vedere la reazione degli elfi quando sei svenuto. Non era mai successo nulla del genere prima d'ora. Sei stata tu, Saphira?
Non è stata soltanto opera mia, o di Glaedr. Le memorie della nostra razza, che hanno preso forma e sostanza grazie alla magia degli elfi, ti hanno infuso le capacità che possediamo noi draghi, poiché tu sei la nostra unica speranza per evitare l'estinzione.
Non capisco.
Guardati allo specchio, suggerì lei. Poi riposati, e all'alba tornerò da te.
Il contatto mentale si dissolse, ed Eragon si alzò in piedi e si stiracchiò, sorpreso dal grande benessere che lo pervadeva. Si recò nel camerino da bagno e prese lo specchio che usava per radersi, portandolo vicino a una lanterna per guardarsi alla luce.
Rimase impietrito.
Era come se le varie alterazioni fisiche che col tempo mutavano l'aspetto di un Cavaliere umano - e che Eragon aveva già cominciato a sperimentare da quando si era legato a Saphira - si fossero completate mentre era svenuto. Il suo volto era liscio e affinato come quello di un elfo, le orecchie appuntite come le loro e gli occhi a mandorla come i loro; la pallida pelle di alabastro emanava un tenue chiarore, come se fosse la lucentezza della magia. Sembro un principe. Eragon non aveva mai usato il termine bellissimo per un uomo, men che mai per se stesso, ma adesso l'unica parola adatta a descriverlo era quella. Eppure non era ancora interamente un elfo. La sua mascella era più pronunciata, la fronte più sporgente, il viso più largo. Era più bello di qualsiasi umano, e più virile di qualsiasi elfo. Con dita tremanti, Eragon si tastò la nuca in cerca della cicatrice.
Non sentì niente.
Si strappò di dosso la tunica e si voltò per esaminarsi allo specchio. La sua schiena era liscia come prima della battaglia del Farthen Dùr. Gli vennero le lacrime agli occhi, mentre faceva scorrere la mano lì dove Durza gli aveva inferto il colpo. In quel momento capì che la schiena non l'avrebbe più tormentato.
Non solo era scomparsa l'infame piaga che aveva scelto di tenere, ma anche tutti gli altri sfregi e le cicatrici, lasciando il suo corpo intatto come quello di un neonato. Eragon si passò un dito sul polso dove si era tagliato affilando la falce di Garrow. Non restava alcuna traccia della ferita. Anche le vaste cicatrici delle piaghe che si era procurato all'interno delle cosce durante il suo primo volo con Saphira erano scomparse. Per un momento, le rimpianse come ricordo della sua vita, ma il rimpianto durò poco quando si rese conto che ogni ferita che aveva subito, anche se piccola, era stata cancellata.
Sono diventato quello che era destino che fossi, pensò, e trasse un profondo respiro di aria inebriante. Posò lo specchio sul letto e indossò i suoi abiti migliori: una tunica cremisi cucita con fili d'oro; una cintura borchiata di giada bianca; caldi gambali felpati; un paio di stivali di stoffa, i preferiti dagli elfi; e i bracciali di cuoio che gli avevano donato i nani.
Eragon scese dall'albero e vagò tra le ombre di Ellesméra, osservando gli elfi che festeggiavano nella febbre della notte. Nessuno di loro lo riconobbe, anche se lo salutarono come fosse uno di loro e lo invitarono a unirsi ai bagordi. Eragon si sentiva fluttuare in uno stato di acuta consapevolezza, i sensi vibranti per le nuove visioni, i nuovi suoni, i nuovi odori, le nuove sensazioni che lo assalivano. Riusciva a vedere nel buio dove prima sarebbe stato cieco. Poteva toccare una foglia e, soltanto col tatto, contare ogni singolo pelo che la ricopriva. Era in grado di identificare ogni odore che gli aleggiava intorno con l'olfatto di un lupo o di un drago. E poteva sentire i passi dei topi nel sottobosco, e il rumore prodotto da una falda di corteccia che cadeva a terra; lo stesso battito del suo cuore era come il rullare di un tamburo.
I suoi vagabondaggi lo condussero oltre l'albero di Menoa, dove si fermò a osservare Saphira in mezzo ai festeggiamenti, anche se non si rivelò ai presenti nella radura.
Dove vai, piccolo mio? gli chiese la dragonessa.
Eragon vide Arya alzarsi dal suo posto accanto alla madre, farsi strada fra gli elfi e poi, come uno spirito della foresta, dileguarsi fra gli alberi. Cammino fra la candela e il buio, rispose lui, e seguì Arya.
Eragon rintracciò Arya seguendo il suo delicato profumo di aghi di pino, il lieve fruscìo prodotto dal contatto dei suoi piedi sul terreno e il mutamento nell'aria lasciato dalla sua scia. La trovò ferma, sola, ai margini di una piccola radura, come una creatura selvatica che osservasse le costellazioni muoversi nel cielo.
Quando Eragon uscì allo scoperto, Arya lo guardò stupita, come se lo vedesse per la prima volta. L'elfa spalancò gli occhi, e sussurrò: «Eragon, sei tu?»
«Sì.»
«Cosa ti hanno fatto?»
«Non lo so.»
Lui si avvicinò, e insieme passeggiarono nella fitta boscaglia, che riecheggiava di musica e voci del festino lontano. Grazie al suo cambiamento, Eragon avvertiva ancora più forte la presenza di Arya, il fruscìo degli abiti sulla sua pelle, il pallido e morbido incavo del collo, e le sue ciglia ricoperte da uno strato d'olio che le rendeva lucide e curve come petali neri bagnati di pioggia.
Si fermarono sulla riva di un piccolo torrente così limpido da essere invisibile nella fioca luce. L'unico indizio che tradiva la sua presenza era il sonoro gorgoglio dell'acqua che scorreva sulle rocce. I pini formavano una specie di grotta con i loro rami, nascondendo Eragon e Arya al mondo e riscaldando l'aria fredda e immobile. L'anfratto sembrava un luogo senza età, come se fosse stato rimosso dal mondo e sottratto, per qualche magia, al soffio inclemente del tempo.
In quel recesso segreto, Eragon si sentì improvvisamente molto vicino ad Arya, e fu travolto dalla passione che nutriva per lei. Era così inebriato dalla forza e dalla vitalità che gli scorrevano nelle vene - come dalla magia incontrollata che riempiva la foresta - che ignorò ogni cautela e disse: «Gli alberi sono alti, le stelle splendenti... e tu sei bellissima, Arya Svit-kona.» In circostanze normali, avrebbe considerato questo atto l'apice della follia, ma in quella notte frenetica e stregata gli parve perfettamente naturale.
Lei s'irrigidì. «Eragon...»
Lui ignorò il suo ammonimento. «Arya, io farei qualsiasi cosa per conquistare il tuo cuore. Ti seguirei in capo al mondo. Ti costruirei un palazzo a mani nude. Ti...»
«Vorrei che la smettessi di corteggiarmi. Me lo prometti?» Quando lui esitò, lei si avvicinò di un passo, e con voce gentile gli disse: «Eragon, questo non è possibile. Tu sei giovane, e io sono vecchia, e questo non potrà mai cambiare.»
«Non provi niente per me?»
«I miei sentimenti per te» rispose lei «sono quelli di un'amica, niente di più. Ti sono grata per avermi salvata a Gil'ead, e trovo piacevole la tua compagnia. Tutto qui... Rinuncia a questa tua ossessione, ti spezzerà il cuore, e trova qualcuna della tua età con cui trascorrere lunghi anni.»
Gli occhi di Eragon luccicarono di lacrime. «Come puoi essere tanto crudele?»
«Non sono crudele, ma gentile. Io e te non siamo fatti l'uno per l'altra.»
Al colmo della disperazione, Eragon cercò di suggerire: «Potresti darmi i tuoi ricordi, e così avrei le stesse tue esperienze e le tue conoscenze.»
«Sarebbe un abominio.» Arya levò il mento, il volto grave e solenne bagnato dal chiarore argenteo delle stelle. Una nota d'acciaio entrò nella sua voce. «Ascoltami bene, Eragon. Questo non può essere, né sarà mai. E se non riuscirai a controllarti, la nostra amicizia dovrà finire, perché le tue emozioni ci distraggono dal nostro dovere.» L'elfa accennò un inchino. «Addio, Eragon Ammazzaspettri.» Detto questo, si allontanò a grandi passi e svanì nella Du Weldenvarden. Ora le lacrime sgorgarono dagli occhi di Eragon, rotolando lungo le guance per cadere sul tappeto di muschio, dove rimasero come perle sparse su un drappo di velluto verde. Stordito, si sedette su di un tronco marcio e si seppellì il volto fra le mani, piangendo perché il suo affetto per Arya era destinato a non essere corrisposto, e perché l'aveva ancor più allontanata da sé.
Dopo qualche istante, Saphira si unì a lui. Oh, piccolo mio, disse, sfiorandolo col muso. Perché ti sei infinto questo tormento? Sapevi a che cosa saresti andato incontro se avessi corteggiato Arya di nuovo.
Non ho potuto farne a meno. Si abbandonò contro il suo ventre tiepido, dondolandosi avanti e indietro, scosso dai singhiozzi per l'immensità della sua tristezza. Coprendolo con un'ala, Saphira lo strinse a sé, come una chioccia fa con il suo pulcino. Lui si rannicchiò contro di lei, lasciandosi cullare mentre la notte diventava giorno e l'Agaetì Blòdhren si avviava alla fine.
Lo sbarco
Roran era a poppa della Cinghiale Rosso, le braccia incrociate sul petto, i piedi divaricati per tenersi in equilibrio sulla chiatta ondeggiante. Il vento salmastro gli arruffava i capelli e la barba e gli solleticava i peli sugli avambracci nudi. Al suo fianco, Clovis governava il timone. Il coriaceo marinaio puntò il dito verso la costa, indicando uno scoglio gremito di gabbiani che si stagliava ai piedi di un promontorio ondulato, proteso sul mare. «Teirm si trova dall'altro lato.»
Roran socchiuse gli occhi contro il riverbero del sole pomeridiano sull'oceano. «Allora fermiamoci qui.» «Non vuoi sbarcare in città?»
«Non tutti insieme. Chiama Torson e Flint, e di' loro di portare le chiatte su quella spiaggia. Mi sembra un buon posto per accamparci.»
Clovis fece una smorfia. «Ah! Speravo tanto in un pasto caldo stasera.» Roran capì; i viveri freschi di Narda erano finiti da un pezzo, e non erano rimasti che il maiale salato, le aringhe affumicate, i cavoli conservati, le gallette che le donne avevano fatto con la farina acquistata, le verdure in salamoia e qualche pezzo di carne avanzato da quando avevano macellato uno dei pochi animali rimasti o una preda uccisa nelle occasioni in cui avevano toccato terra. La voce roca di Clovis risuonò sull'acqua quando chiamò i capitani delle altre due chiatte. Non appena si avvicinarono, ordinò loro di dirigersi a riva, suscitando un coro di proteste. Torson e Flint e altri marinai avevano contato sull'arrivo a Teirm quella sera per scialacquare le loro paghe nei piaceri offerti dalla città. Dopo aver fatto arenare le chiatte, Roran si aggirò fra i compaesani aiutandoli a piantare le tende, a scaricare le provviste, ad attingere acqua da un ruscello vicino, insomma, offrendo il suo aiuto finché tutti non si furono sistemati. Si fermò per rivolgere a Morn e a Tara una parola d'incoraggiamento, perché avevano l'aria depressa, ma in cambio ricevette solo sguardi torvi. L'oste e sua moglie lo avevano tenuto a distanza da quando avevano lasciato la Valle Palancar. Tutto considerato, i contadini erano in condizioni migliori di quando erano arrivati a Narda, perché sulle chiatte si erano riposati, ma le costanti preoccupazioni e l'esposizione agli elementi avevano impedito che recuperassero completamente le forze come Roran aveva sperato. «Fortemartello, vuoi cenare da noi questa sera?» lo invitò Thane.
Roran rifiutò con garbo e si volse, per ritrovarsi faccia a faccia con Felda. Suo marito, Byrd, era stato ucciso da Sloan. La donna fece una rapida riverenza, poi disse: «Posso parlarti un minuto, Roran Garrowsson?»
Lui le sorrise. «Ma certo, Felda. Tutto il tempo che vuoi.»
«Ti ringrazio.» Con espressione furtiva, giocherellò con le frange che orlavano il suo scialle e scoccò un'occhiata alla propria tenda. «Vorrei chiederti un favore. Si tratta di Mandel...» Roran annuì; aveva scelto il figlio maggiore della donna per accompagnarlo a Narda in quel fatàle viaggio durante il quale aveva ucciso i due soldati. Mandel si era comportato in maniera ammirevole, come durante le settimane di navigazione sulla Edeline, dove aveva imparato tutto quello che poteva sul governo di una chiatta.
«Ha stretto amicizia con i marinai della nostra chiatta e ha cominciato a giocare a dadi con loro. Non per soldi - non ne abbiamo - ma per piccoli oggetti. Cose che ci servono.»
«Gli hai chiesto di smettere?»
Felda si avvolse una frangia intorno al dito. «Ho paura che da quando suo padre è morto non mi rispetti più come un tempo. È diventato un selvaggio, un barbaro.»
Ci siamo tutti imbarbariti, pensò Roran. «E cosa vuoi che faccia?» le chiese con dolcezza.
«Tu sei sempre stato generoso con Mandel. Lui ti ammira. Se gli parlerai, a te darà ascolto.»
Roran riflettè sulla richiesta, poi disse: «D'accordo, vedrò di fare il possibile.» Felda rilassò le spalle, sollevata. «Dimmi. Che cosa ha perso ai dadi?»
«Soprattutto cibo.» Felda esitò, poi aggiunse: «Ma so che una volta ha scommesso il braccialetto di mia nonna contro un coniglio che quegli uomini avevano catturato.»
Roran si accigliò. «Non darti pena, Felda. Mi occuperò della faccenda quanto prima.»
